IL MOSAICO ROMANO DEL "CONOSCI TE STESSO"

Questo mosaico datato al III secolo d.C., ritrovato in un'area sepolcrale del Convento di San Gregorio al Celio a Roma, raffigura uno scheletro umano, disteso forse su un letto da banchetto, sull’erba o tra le fiamme, che indica il motto dell'oracolo di Delfi gnōthi seautón, “conosci te stesso”, qui inteso come esortazione a conoscere i limiti della natura umana e la caducità della vita. Il "conosci te stesso" gnōthi seautón in gr. γνῶϑι σεαυτόν, era scritto a caratteri cubitali sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, l'ombelico del mondo antico, il punto secondo la mitologia classica in cui due aquile, liberate da Giove agli estremi della Terra e dirette al suo centro, si erano incontrate. Il mosaico è parte della collezione del Museo Nazionale Romano e si trova nella sede delle Terme di Diocleziano.
Secondo antichi autori greci e romani, come Pausania, c'erano tre massime incise in modo prominente sul tempio: oltre al "conosci te stesso", anche "niente di troppo" e "fai una promessa e saranno guai". La loro posizione esatta è incerta; si diceva che fossero sul muro del piazzale, su una colonna e sulla facciata del tempio. Anche la data della loro iscrizione è sconosciuta, ma erano presenti almeno dal V secolo a.C. Sebbene il tempio sia stato distrutto e ricostruito più volte nel corso degli anni, le massime sembrano essere persistite fino all’epoca romana imperiale, periodo in cui, secondo Plinio il Vecchio, erano scritte in lettere d'oro. Poi, della loro esistenza non si è saputo più nulla.

Questi brevissimi aforismi erano degli apoftegmi attribuiti ai Sette Sapienti, ed esortavano gli uomini al riconoscimento della propria condizione e limitatezza umana, e tali motti erano un monito che veniva rivolto a chiunque volesse parlare con gli dei, di cui la Pizia, la sacerdotessa di Apollo che forniva i responsi oracolari al santuario di Delfi, era il tramite alle entità superiori.
Le massime dovevano far abbandonare qualsiasi presunzione alle persone che entravano nel tempio e consultavano l'oracolo, e insegnare loro a rispettare i limiti sia nel pensiero che negli atti, e che non potevano mai agire come delle divinità.
La più riuscita di esse, quella che divenne importante per i pensatori antichi, fu il "conosci te stesso".
Socrate, secondo quanto riferisce Platone, considerava questa massima come fondamentale, interpretandola come un invito a riflettere sui limiti della conoscenza umana prima di intraprendere il cammino del sapere e della virtù. I Romani, pur essendo governanti della Grecia ma influenzati dalla loro cultura, adottarono subito questa massima. La prima menzione di questo motto si trova in un frammento di Ione di Chio, risalente al V secolo a.C., che afferma: "Appartiene a tutti gli uomini il conoscere se stessi e il pensare bene", quest'ultimo, espresso con sophrosyne, indica la prudenza nel pensiero, come autocontrollo e riflessione. Una versione più esplicita della massima si trova in Prometeo Incatenato, un'opera teatrale attribuita a Eschilo e scritta prima del 424 a.C.

In quest'opera, il titano Prometeo viene incatenato a una roccia come punizione per aver sfidato gli dei. Gli si presenta Oceano, che gli suggerisce: "Conosci te stesso e adotta nuove abitudini, perché c'è anche un nuovo capo tra gli dei". Qui, "conosci te stesso" può significare "conosci i tuoi limiti" o "conosci il tuo posto", implicando che Prometeo debba accettare che Zeus è il nuovo capo degli dei. Tuttavia, nel IV secolo a.C., questa massima fu reinterpretata da Platone in modo più ampio, come "conosci la tua anima".
Questo concetto è stato oggetto di riflessioni approfondite, inserite in molti dei suoi dialoghi socratici (ricostruzioni romanzate delle conversazioni tra Socrate e vari interlocutori) e nei suoi scritti sull'argomento, influenzando profondamente le interpretazioni successive.
Dopo Platone, la conoscenza di sé è stata spesso associata alla conoscenza dell'anima, in particolare al riconoscimento del proprio carattere, assumendo nel tempo il significato secondario di "conosci i tuoi difetti". Il medico Galeno utilizza questa interpretazione nella sua opera Sulla diagnosi e cura delle passioni dell'anima, notando che chi è più incline all'errore spesso è meno consapevole dei propri fallimenti.
Tra gli esempi latini di questo uso, il poeta Giovenale scrisse nella sua Satira che gli uomini non dovrebbero cercare di vivere oltre le proprie possibilità e dovrebbero essere consapevoli della propria posizione anche nella gerarchia sociale.

Numerosi altri casi attestano l'uso della massima come "Conosci i tuoi limiti", e questo era probabilmente il suo principale significato fino al VI secolo d.C. Un uso correlato, forse influenzato dalla filosofia stoica, interpreta la frase come un memento mori, cioè "Ricorda che sei mortale"; questa interpretazione è citata da autori come Menandro, Seneca, Plutarco e Luciano. Autori cristiani, ebrei e islamici trovarono vari equivalenti scritturali alla massima, permettendo loro di discutere l'argomento della conoscenza di sé senza fare riferimento alle iscrizioni pagane. Durante la Riforma protestante, i teologi cristiani generalmente consideravano che la massima implicasse, prima di tutto, la conoscenza dell'origine dell'anima in Dio e, in secondo luogo, la comprensione della peccaminosità della natura umana. Nei testi secolari di quel periodo, emersero nuovi significati; tra questi, "Conosci te stesso" divenne un comando rivolto allo studio delle proprietà fisiche del corpo umano. Nel XIX e XX secolo, la massima assunse nuove accezioni. Fu spesso citata nella filosofia da autori come Kant, Hegel e Goethe, mentre per Nietzsche rappresentò una questione centrale e divenne fondamentale nella psicoanalisi nascente, interpretata come un invito a comprendere la mente inconscia. Oggi, il "Conosci te stesso" rappresenta ancora una domanda per filosofi e psicologi contemporanei, e si inserisce anche tra le tendenze attuali che promuovono terapie esistenziali e il benessere psicofisico.